Festa della castagna

 

POLENTA DI CASTAGNE
di Iva Zanicchi
 
Mi piace che si torni a parlare di castagne. Se devo pensare ad un sapore della mia infanzia, un sapore amaro e struggente, mi vengono subito in mente i “borghi”, le castagne cotte che devi masticare bene e di cui avevi la consistenza sotto i denti. Tutte le sere mia madre dava ad ognuno di noi bambini un pugno di castagne secche da sbucciare e spellare come si deve; per togliere poi bene la pellicola interna la mamma le metteva in un secchio d’acqua e le mescolava velocemente più e più volte. Il mattino dopo ci svegliavamo con una bella tazzona piena di castagne cotte, con il loro brodo scuro scuro e un po’ di latte. Solo dopo la guerra si cominciò ad aggiungere un po’ di zucchero…per me sono un ricordo felice.
Certamente nella vita e nei ricordi di mia madre e di mia nonna, le castagne sono anche un’altra cosa, sono sinonimo di povertà e di fatiche, soprattutto per le donne. Erano loro per giorni r giorni nei boschi con la schiena curva alla prima raccolta di ricci, sempre loro a rivoltare le castagne sulle grate dentro ai metati pieni di acre odore di fumo che chiudeva la gola durante i venti giorni – e poi ancora venti – della essiccazione. Ancora loro a sbattere con forza sacchi pieni di castagne per far staccare l’involucro, sempre loto a custodire e misurare la farina di castagna che significava garanzia contro la fame; ancora loro – le mamme – a cercare di variare giorno dopo giorno quella polenta di castagne che era l’unico cibo di tutti i giorni e di tutti i pasti del giorno, e che nelle loro mani diventava, di volta in volta, polenta salta piuttosto dura da tagliare a fette o polentina tenera e dolce per il mattino, i “manfecc”, così li chiamiamo, che si mangiavano con un po’ di ricotta.
Ho voluto scrivere di quegli anni in un libro che si chiama “Polenta di castagne” e che racconta la storia della mia montagna, la storia della mia gente, che è anche la mia storia. Quando davvero le castagne erano il pane; quando tutti i paesi dell’Appennino erano un po’ come Vaglie o come il Cerreto, e tutte le donne erano un po’ come la Maria, che si incontra nella prima pagina del romanzo, china sul paiolo che bolle nel camino, intenta a mescolare e rimescolare la polenta di castagne che quella sera “stava venendo straordinariamente liscia, come non capita quasi mai con la farina di castagne, che sembra fatta apposta per dar fastidio ai poveri”. A quei tempi ogni casa ed ogni famiglia aveva il suo castagneto , per consuetudine riconosciuta ed osservata dalla gente, i confini erano sacri e nessuno raccoglieva castagne nella terra di un altro. Solo quelle che cadevano sulla strada erano di tutti ed allora capitava di vedere, alla mattina presto, le vecchiette – i più poveri tra i poveri – raccogliere le castagne abbandonate nei sentieri e nelle rive delle carraie.
Oggi le castagne non si raccolgono più, i metati di pietra sono diventati una curiosità per i turisti, le “vassore” di legno le appendiamo ai muri delle case, in mostra come oggetti di antiquariato, anche i castagneti sono in abbandono.
È giusto. Ma io non porto rancore a quegli anni e a quei ricordi. Come erano belle le valli dell’Appennino coperte di boschi e di castagneti in cui i paesi sparsi sembravano nascondersi a cercare rifugio e protezione, e come mi piace entrate nelle nostre cucine, in autunno e sentire ancora il profumo dei dolci di castagne, tutti quanti, il castagnaccio, le frittelle, la polentina molle, e anche
 la polenta vera; hanno il sapore buono della terra di montagna.
 
LA CASTAGNA UNA PRESENZA ANTICA
Un’intuizione di Matilde di Canossa diede un importante impulso alla coltivazione del castagno: gli abitanti dei suoi domini dovevano disporre di una fonte di sostentamento certa, quando ancora la patata non c’era. Con l’ausilio e la sapienza dei monaci vengono moltiplicate le piante e messe a dimora in aree vocate, nel rispetto di un criterio agronomico che viene definito “sesto d’impianto matildico”, dove le piante di castagno, “allevate” in forma libera, sono disposte ai vertici di triangoli sfalsati ad una distanza di circa 10 metri. In ogni “biolca reggiana” si contano circa 30 piante. Con questo sistema si poteva anche sfruttare l’erba del sottobosco quale pascolo per le greggi e si raccoglievano agevolmente le fogli da utilizzare nella stalla quale alimento e giaciglio per gli animali. Anche il legname del castagno era prezioso per i mobili o per gli attrezzi da lavoro. Poggi il castagneto, diffuso dalle colline fino a oltre i mille metri di altitudine costituisce una componente importante del paesaggio appenninico.
 
RICETTE DA MILLE ANNI
 
La cucina montanara è ricca di ricette a basi di castagne, dalle semplici castagne lessate (i balush o ballotte) fino agli usi più raffinati come i tortellini natalizi ripieni, passando per le “bascotle” che sono castagne cotte e poi mangiate nel latte. Prelibatissimi i marroni del medio Appennino, da Casina a Marola, dal Vettese al crinale. Più grandi e saporiti delle castagne, erano presenti in un limitato numero di piante per famiglia. I marroni sono consumati freschi quali caldarroste, dette comunemente “mondine”, e conservano un buon valore commerciale.
Ma l’utilizzo principale della castagna in montagna è quello della produzione di farina, con cui si preparava anche la polenta rossa.
 
POLENTA DI CASTAGNA
Ingredienti: 500 g di farina di castagne, acqua e sale.
Procedimento: portare ad ebollizione circa 2 litri di acqua, aggiungere un pizzico di sale e versare lentamente a pioggia la farina di castagna avendo cura di mescolare in modo energico. Dopo aver introdotto tutta la farina fare cuocere per circa 30 ,minuti fino al raggiungimento della giusta consistenza. Trasferire in ciotola o su tagliere.
 
ACQUA, SOLE E…FUNGHI
Quando le piogge  e la temperatura di succedono nel rispetto della tradizione meteo della zona, i boschi dell’Appennino e le zone loro circostanti si riempiono di funghi superiori, molti dei quali solitamente si raccolgono a scopo alimentare, in quanto ingrediente ineguagliabile per la preparazione di piatti tipici dell’intera montagna. Nelle buone stagioni, il fungo per eccellenza è il porcino nelle sue varie specie. Il primo a comparire in maggio-giugno è il Boletus aestivalis che comincia a far capolino nelle zone collinari per poi risalire sino all’alta montagna, dove si può raccogliere anche in luglio, agosto ed eccezionalmente in settembre. Ottimo commestibile è particolarmente adatto per essere essiccato. Più tardi, soprattutto nelle fasce altimetriche più basse dalla quercia al castagno, troviamo il Boletus auerues (porcino nero9, particolarmente adatto per il consumo fresco. Quando l’andamento stagionale è favorevole risulta molto abbondante e trasforma i menù dei ristoranti e delle trattorie dell’Appennino che lo propongono come elemento identificativo della zona. Più o meno nello stesso periodo nei boschi di conifere, ma anche di latifoglie compare il Boletus edulis buon commestibile; per buon ultimo nelle zone altimetriche più alte appare il Boletus pinophilus (porcino rosso). Sono presenti anche funghi considerati, spesso a torto, minori perché oggetto di una raccolta meno diffusa e solitamente praticata da persone particolarmente appassionate quali i prugnoli, le spugnole, i galletti, le russole a carne dolce, l’ovulo buono, i chiodini e i prataioli. Occorre ricordare che l’attività di raccolta dei funghi è regolamentata per quanto concerne la possibilità di eseguirla e nei quantitativa previsti dalla Legge regionale n°6 1996 e successive modifiche e da un regolamento provinciale.
  
QUEL PREZIOSO TARTUFO DELL’APPENNINO
Nella provincia reggiana le zone più ricche di tartufi sono la collina e la montagna, quello bianco (Tuber magnatum) si spinge sino a 800 metri, quello nero(Tuber estivum) sino a mille. Qui il tartufo ha un nome particolare: trifola.
Il bianco, il più raro e pregiato, era anticamente il tubero “dei signori”. Impiegato in piccolissime dosi come condimento aromatico inconfondibile, sviluppa sotto terra in simbiosi con alcune piante dell’Appennino: querce, carpini, salici. Lo si trova con cani, appositamente addestrati da fine estate a gennaio. Nei ristoranti della zona nobilita primi piatti, come risotti o anche cappelletti, ma anche secondi a base di carne, come il carpaccio. Nella montagna reggiana, il mondo della trifola racontga anche di feste storiche, come quelle di Cavola e Viano (città del tartufo della Valle del Tresinaro), con l’Ordine dei cavalieri del tartufo, riservato ai più popolari e anziani tartufai, della rivalità e delle gare tra i loro cani. C’è anche l’Associazione dei Tartufai reggiani, che riunisce alcune centinaia di tesserati. La raccolta del tartufo è regolamentata da una legge della Regione Emilia-Romagna.
 
ANDAR PER BOSCHI E RICERCAR METATI
Le castagne dopo la raccolta venivano essiccate nei tradizionali locali in sasso, i”metati”, ubicati nei centri abitati o all’interno del castagneto stesso. Qui nell’ambiente al piano terra veniva acceso un fuoco lento, privo di fiamma, per essiccare, nella zona superiore, uno strato di 50 cm di castagne, secondo una proceduta di conservazione che risale al secolo XVI. Il processo durava circa un mese dopodichè le castagne sarebbero state sbucciate e macinate per produrre farina, un ingrediente fondamentale nella cucina montanara. Le famiglie che non possedevano un “metato” consegnavano il prodotto a che ne disponeva e al termine dell’essiccazione ricevevano un terzo in peso di quanto consegnato. Oggi alcuni di questi tradizionali edifici in pietra sono stati restaurati come piccoli musei (metato di Marola), uno addirittura è diventato Bed & Breakfast (Felina). Di molti metati tuttavia, perduta ormai la funzione produttiva, si conservano solamente i ruderi.
 
DOMENICHE D’AUTUNNO IN APPENNINO, CASTAGNE FUNGHI TARTUFI IN FESTA
Andar per castagne e per marroni nelle domeniche d’autunno nelle piazze dei borghi, intorno al grande paiolo delle caldarroste, seguire passo dopo passo i sentieri fra i castagni secolari e sostare ai metati anneriti dal fumo, cercare funghi nei boschi o piuttosto alle feste sui banchetti degli acquisti, seguire gli aromi rati che ci guidano fino ai grani preziosi del tartufo, assaggiare “e savuret” che bolle lento per ore, sul fuoco del “focone” vegliato dagli uomini, fra profumo di vino novello e di frutti antichi.